La ragazza- sole, di là dalla grande nera ferita, lo guardò. L'aria intorno a lei era ferma, in un ardore cristallino- persino nel fragore delle valanghe, sotto la tormenta di tronchi sradicati, terra e foglie morte che staffilavano l'aria nella loro impetuosa rovina.
La lama di lei, color oltremare, non conosceva fremito- la sua, lei stessa lo aveva domato ad affogarla ancora palpitante nella neve, scossa da un assordante ronzio, come sciami di calabroni impazziti.
Poi, la ragazza sole si girò- gli rivolse le spalle, magre, misere, ma dritte, in una fermezza quasi regale, come tante volte aveva visto ergersi sua madre. Corse via: il mondo era un unico boato, orrendo, una vasta voragine dai bordi riarsi. Il mondo era la frustata impressa sul suo viso, e l'ustione del laser sulle spalle, e il blaster che, come un topo, scavava ancora nella sua carne, forse già pericolosamente vicino ai punti vitali.
Desiderò di accoccolarsi su un fianco e giacere, un nudo fagotto di sangue, aspettando che anche l'ultima isola di alberi e fango sprofondasse nel mare di lava sottostante. Tornare bambino nella culla della morte: sarebbe rassicurante, ragazza sole. Ma era davvero troppo debole- il suo corpo, ridotto ad una molliccia, tiepida prigione sempre più insofferente agli stimoli che tentava d'imprimerle, come una piccola spaventata bestia di rovo gettata dentro a una gabbia troppo grande. Si sarebbe girato fra poco; il sonno serpeggiava nel sangue, gravava sulle palpebre, e con il sonno sarebbe venuta la fine, pensò, con gratitudine.
LUI avrebbe forse tratto nuovo vigore dalle ferite- lui avrebbe saputo come riportare la ragazza sole, e rialzarsi, e ricominciare a lottare. Ma un uomo che muore non deve rimpiangere, non deve mentire, non quando è solo con se stesso nel mezzo dello sfacelo. Basta menzogne, Cavaliere di Ren, Maestro, Ragazzo-Lava: non sarai mai come lui, non ne avrai il tempo e, forse, non ne avresti avuto la forza.
La mia faccia. Brucia. La neve gli sembrava desiderabile come forse, nel suo squallido deserto interstellare, la ragazza aveva tante volte desiderato pura acqua fresca sulle labbra scorticate dal sole.
Ben Solo- ma non si sarebbe rivolto così a se stesso, se avesse potuto- stese le dita sul terreno percosso da continui singulti.
La neve rispose docilmente al suo tocco: era acquosa, scaldata dal calore che, lentamente, lo abbandonava, imbrattata di sangue e di scarpate, molte delle quali avevano lasciato una sottile traccia di sabbia: granelli minuscoli, portati fra le galassie dai logori stivali di una ragazzina.
Stirò il braccio poco più su, resistendo al dolore, finché non sentì il ghiaccio crocchiare fra le falangi e le unghie, sotto il rivestimento dei guanti, dolere per lo sforzo, mentre penetravano una sostanza più compatta: richiuse il pugno e lo avvicinò al viso: nel cuore del palmo nero c'era un piccolo grumo bianco. Lo applicò sulla ferita, soffiando fra le labbra per soffocare un gemito- di dolore o, forse, di sollievo.
Le mie labbra. Bruciano.
Il sudore si condensava in perle di ghiaccio, sulla fronte e fra i capelli.
L'aria, scossa da correnti convettive, spazzava ora gelida, ora percorsa da grevi raffiche di bollore, provenienti dalle spaccature della crosta terrestre o, probabilmente, dalla base che, da qualche parte oltre la fenditura, continuava a esplodere nella notte, lacerando il cielo in repentini squarci di rosso.
L'emorragia al fianco sembrava essersi fermata; non durerà a lungo. Corri, ragazza, prendi il tuo piccolo traditore e l'uomo scimmia, vola fra le lingue di fuoco che hai appiccato tu stessa. Va' da lei e dille cosa ho fatto, dille che si arrenda e che mi liberi. Dille che la principessa è rimasta sola.
Ritrasse la mano e contemplò la poltiglia di sangue e nevischio: un reticolo di carne bruciata si era staccato dalla guancia e ora pendeva dalla sua mano, sottile come una ragnatela, un macabro ricamo sul cuoio del guanto.
Era sempre stato attaccato alla corporeità delle cose: la rigida gonna inamidata di Leia- quelle poche volte che indulgeva a indumenti più femminili; il carburante e l'olio ingrommati insieme al sudore sulle camicie di suo padre; il sentore di salso e sapone sulla ruvida cappa di Luke, e quell'odore di bachelite bruciata che la spada lasciava nell'aria, sferzandola col suo ronzìo mortale.
E poi la pelle- suo padre l' aveva ruvida, irta di una barba troppo presto argentata; quella di Leia era setosa, ma solo per via di quelle polveri colorate che si spalmava in faccia, con quel profumo sottile, che finiva per impregnare gli abiti e anche lui, fin tanto che aveva trascorso molto tempo fra quelle braccia. L' uomo- scimmia era morbido e caldo: ricordava il tempo in cui aveva un nome, Chewbacca, e lo portava sulle spalle. Più vicino alle stelle, innalzato da terra, un piccolo uomo sulle spalle dei giganti.
Sull'orlo dei guanti e sulla tela nera delle vesti era rimasta la scia della ragazza-sole: lei emanava moltissimi odori, tutti diversi, che i suoi sensi acutizzati dalla sofferenza rintracciavano uno ad uno. Sul polso, le stille dei loro sudori mescolati nella battaglia esalavano un acidulo sentore, odore di pelle bionda e giovane, sporca di fatica e provata dal viaggio- fluidi di un corpo macinato dall'arsura. Sulle dita, con cui l'aveva toccata, il sangue di lei. Era amarognolo, ferroso.
Ben Solo, o ciò che ne restava, si succhiò le labbra: il suo sangue sgorgava in piccoli rivoli ed era molto più dolce di quello di lei.
La bambina era bianca e dorata in faccia, e castana come tronchi di foreste vergini. Il colore dei suoi occhi vagava in una landa sconosciuta, nell'inafferrabile confine fra terra e vegetazione. Quando il riflesso della sua spada rossa vi si era rispecchiato, avevano brillato, neri, come lo spazio, e ardenti, simili a fari al di là di profondissime acque.
R-e-y.
Il nome era nella sua testa, insieme a molte altre cose: distese accecanti, color dell'oro, colossi di pietra e di ferro e soli color porpora e interminaili giorni gemelli, non più lunghi e monotoni di una nuda tacca scavata nell'ardesia con una punta di metallo. Allora, nell'ovatta della stanza in cui si era svolto l'interrogatorio, e adesso, sopra i rimbombi, gli era parso quasi di poter sentire il gracidìo del bulino che grattava alacre come un grillo sulla superficie nera- a volte, nel silenzio, altre con l'unico contrappunto del vento fra le violacee dune del tramonto.
La mente di Rey era piena di sole, e sconfinatezze, e desolazione. Se soltanto avesse ascoltato, invece di gettarsi sulle paure dell'avversario, avida piccola rovistratrice delle sabbie, allenata a cogliere il più piccolo barlume di guadagno in una pila di rifiuti...Sangue del suo sangue.
Un accesso di tremori e un sibilo: la radura collassò di qualche piede. Il calore cresceva, segno che il magma stava risalendo.
Riuscì a rotolare sul fianco detsro, applicando una forte pressione sull sterno. La nausea si impossessò di lui per un istante, e un rivolo di vomito rossastro si riversò sulla neve, in una piccola pozza dall'odore metallico.
Ben Solo, perché ora non era rimasto che lui, nella boscaglia, sorrise; doveva trattarsi di un'orribile smorfia, vista dall'esterno: la pelle tirava come se fosse all'improvviso troppo poca per la totalità del suo viso.
Ragazza-sole...quanta acqua c'era, in quella piccola testa! Vi aveva intravisto un grande oceano- un profondo, verde pelago trapunto di lussureggianti speroni che si conficcavano nelle nuvole rigonfie di monsoni, e bianche, come i bianchissimi abiti della donna che, un tempo, lo chiamava mio piccolo Ben. Prima che i suoi occhi, da bruni, diventassero neri e freddi, e lo giudicassero, perché nelle sue vene scorreva il sangue dei Solo e la famiglia era, ancora una volta, una maledizione. Leia aveva amato suo marito, appassionatamente: ma quando il veleno del rancore aveva contaminato ogni ricordo, anche Ben Solo era diventato colpevole quanto suo padre, o almeno così era certo che fosse avvenuto.
Era precipitato facilmente nell'infuriare della loro eterna contesa, avvinghiato a loro per via dei vincoli parentali, sangue del loro sangue.
Ma mai, mai si era sentito tanto solo, in quegli infiniti innumeri giorni non più lunghi e monotoni di una nuda tacca sul muro, a segnare il tempo fra una precipitosa partenza del padre e un suo sempre più breve e distratto ritorno. Se fosse cresciuto sotto il sole, dentro al sole, affogando in mari di sabbia, vivendo di elemosina e scavando ferraglia come un palombaro, ma con Rey, forse non avrebbe scelto il cammino del Biasimo.
Ora, l'unico sangue che gli suscitasse appartenenza era quello degli altri, versato a terra e sulle sue mani; il sangue dei morti.